La Suprema Corte di Cassazione è di recente intervenuta con un'importante sentenza, con cui ha chiarito il rapporto tra le fattispecie di atti persecutori, ex art. art. 612 bis del c.p. e molestie, ex art. art. 660 del c.p..
Secondo i giudici di legittimità, infatti, il delitto di atti persecutori non può essere riqualificato in molestie qualora la condotta offensiva abbia determinato alterazioni nella vita della persona offesa.Prima di procedere con l’analisi della vicenda e della pronuncia della Suprema Corte, è opportuna una breve premessa sul delitto di stalking.
L’art. art. 612 bis del c.p., rubricato “Atti persecutori”, punisce la condotta di “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.”
Il delitto in commento costituisce un reato abituale, per la cui configurazione è richiesta la reiterazione delle condotte di minaccia o violenza almeno una volta, purché gli episodi siano collegati da un contesto unitario.
Le condotte sopra menzionate devono necessariamente causare almeno uno dei seguenti effetti alternativi:
- un perdurante e grave stato di ansia o paura nella vittima;
- un fondato timore per la propria incolumità o per quella di una persona a lei affettivamente legata;
la costrizione a modificare le proprie abitudini di vita.
Ebbene, nel caso di specie, il Tribunale di Milano aveva condannato l’imputato al pagamento di una semplice ammenda. I giudici, infatti, avevano riqualificato il delitto di cui agli artt. art. 81 del c.p. e art. 612 bis del c.p., aggravati dall’odio razziale, nella contravvenzione ex art. art. 660 del c.p., ovvero molestia o disturbo alle persone. Contro la detta sentenza aveva proposto impugnazione il Procuratore della Repubblica di Busto Arsizio.
La Corte di Appello di Milano però trasmetteva gli atti alla Corte di Cassazione, dichiarando inappellabile la sentenza di condanna alla pena dell’ammenda.
Secondo i giudici territoriali infatti, il Pubblico Ministero, nella sua impugnazione, aveva fatto leva su un singolo motivo di gravame. In particolare, la Procura rilevava un errore di diritto da parte del Tribunale milanese, che aveva riqualificato il delitto di atti persecutori nella contravvenzione di molestie. L’errore, secondo il P.M., risiedeva in una valutazione non adeguata degli elementi di prova raccolti durante le indagini. Inoltre, la Procura sottolineava un ulteriore errore, ovvero la contraddittorietà della motivazione addotta dal Tribunale.
Nello specifico infatti, secondo il P.M., il giudice di primo grado non aveva tenuto conto, nell’emanare la propria sentenza, delle dichiarazioni fornite da parte delle persone offese. Alcune delle vittime, infatti, avevano lamentato di essere stati costretti a cambiare abitazione per evitare di incorrere nelle condotte di stalking realizzate da parte dell’imputato. Inoltre, secondo la Procura, il Tribunale non aveva tenuto adeguatamente conto della pericolosità del reo.
La Corte di Cassazione, nel pronunciarsi sul ricorso, effettua alcune osservazioni preliminari in punto di rito. In particolare, la Corte ha affermato che, qualora il P.M. proponga appello contro una sentenza inappellabile, “l’atto di impugnazione, per essere delibato in sede di legittimità, deve presentare i requisiti prescritti dall’art. 606 cod. proc. pen. che possono essere interpretati ed affrontati, in base al loro contenuto sostanziale e non solo, sulla scorta della redazione della rubrica anteposta all’esposizione dei motivi, se conformi alle previsioni della legge processuale in tema di proponibilità del relativo mezzo di impugnazione”.
Risolto questo aspetto, la Cassazione torna sul merito del giudizio e lo fa partendo da un principio di diritto considerato granitico dalla giurisprudenza, per cui “nel delitto previsto dall’art. 612-bis cod. pen., che ha natura abituale, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice”.
Più semplicemente, la Cassazione analizza la condotta che determina il perfezionamento del delitto di atti persecutori, cd. stalking, per cui l’evento del reato dev’essere il frutto di una condotta persecutoria posta in essere da parte dell’agente, il quale ripete una serie di atti tipici, che, sebbene realizzati in tempi diversi, sono avvinti da una offensività unitaria.
La Suprema Corte ha altresì affermato che l'atto di appello ha dettagliatamente dimostrato che una delle vittime ha dichiarato di vivere con il timore di incontrare l'imputato quando rientra a casa, di avere paura di uscire e di sentirsi molto a disagio a causa di questi stati d'animo, tanto da decidere di cambiare abitazione. Le altre vittime hanno riferito di vivere in uno stato di ansia e paura costante a causa delle ripetute molestie notturne dell'imputato, tra cui la forzatura della porta d'ingresso di un'abitazione.
In conclusione, la Cassazione ha ritenuto che la sentenza oggetto di impugnazione è passibile di censure, a causa della erronea riqualificazione giuridica del caso.
Secondo l'orientamento costante della Cassazione, “la differenza tra il delitto di cui all'articolo 612-bis e il reato di molestie è determinata dalle diverse conseguenze della condotta. Si configura il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. quando le condotte moleste causano alla vittima un perdurante grave stato di ansia o alterano le sue abitudini di vita, mentre si parla del reato di cui all'art. 660 cod. pen. quando le molestie si limitano a infastidire la vittima”.
Per questi motivi, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviando al Tribunale di Busto Arsizio per un nuovo giudizio.