Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte vedeva come protagonista una donna che, assieme alla propria famiglia, aveva occupato per cinque anni un alloggio di edilizia residenziale pubblica, dopo averne manomesso il portone d’ingresso, danneggiandolo.
In seguito all’accaduto la donna era stata condannata, in entrambi i gradi del giudizio di merito, a titolo di concorso morale, per il reato di danneggiamento, ex art. 635 del c.p., e per quello di invasione di terreni o edifici, ex art. 633 del c.p..
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello non le avevano, infatti, riconosciuto la scriminante dello stato di necessità in quanto, secondo i giudici, da un lato, l’indigenza e la presenza di figli minori costituivano circostanze comuni a molte delle famiglie in attesa di un alloggio popolare, e, dall’altro, non sussisteva una situazione di emergenza tale da giustificare un’occupazione della durata di ben cinque anni.
La donna, rimasta soccombente, impugnava la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando, innanzitutto, la propria condanna per il reato di danneggiamento. Secondo la ricorrente, infatti, non sussisteva alcun elemento di fatto che provasse né chi avesse materialmente manomesso il portone d’ingresso dell’edificio occupato, né che esistesse un precedente accordo tra lei e chi l’aveva manomesso, il che, a parere della difesa, comportava che la condanna dell’imputata fosse stata basata soltanto sul fatto che la stessa avesse ricevuto un’utilità da tale condotta.
Con un secondo motivo di ricorso, la difesa dell’imputata eccepiva il fatto che la Corte territoriale non avesse considerato applicabile la scriminante dello stato di necessità di cui all’art. 54 del c.p., contestando anche le motivazioni che avevano portato a tale decisione, considerandole illogiche ed incoerenti.
La Suprema Corte ha, tuttavia, dichiarato il ricorso inammissibile.
Quanto, innanzitutto, alla contestata attribuzione all’imputata di una responsabilità per il reato di danneggiamento, gli Ermellini, contraddicendo quanto eccepito dalla difesa, l’hanno ritenuta provata, sotto il profilo logico, poiché la manomissione della porta d’ingresso costituiva un’azione chiaramente finalizzata ad assicurare alla donna e alla sua famiglia il godimento dell’abitazione. Gli stessi giudici hanno, infatti, osservato come non fosse stata fornita alcuna prova che dimostrasse come l’imputata avesse occupato l’alloggio dopo un danneggiamento del relativo portone ad opera di terzi. Anzi, dai fatti emergeva, al contrario, che c’era stata un’assoluta consequenzialità tra il danneggiamento e la successiva occupazione dell’immobile da parte della donna.
In relazione, poi, al contestato mancato riconoscimento della scriminante dello stato di necessità, secondo la Cassazione, contrariamente a quanto lamentato dall’imputata, i giudici di merito hanno esaminato in maniera sufficientemente esaustiva le doglianze da essa esposte, provvedendo, peraltro, a sottolineare puntualmente come tale mancato riconoscimento fosse giustificato dalla durata quinquennale dell’occupazione, dalla mancanza di una situazione di emergenza tale da giustificare una così estesa situazione di indigenza, nonché dalla possibilità di beneficiare di sistemazioni alternative presso alcuni familiari.
A sostegno di tale posizione, gli stessi giudici di legittimità hanno fatto espressamente riferimento ad un loro consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “la situazione di indigenza non è di per sé idonea a integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell'attualità e della inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale” (Cass. Pen., n. 35590/2016; Cass. Pen., n. 3967/2015; Cass. Pen., n. 27049/2008).