Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Sassari, aveva accolto la domanda proposta da una donna nei confronti di una coppia, avente ad oggetto l’accertamento del fatto che tra le parti era stato instaurato un rapporto di lavoro subordinato per lo svolgimento di prestazioni di lavoro domestico, con conseguente condanna della coppia al pagamento delle dovute retribuzioni.
Secondo la Corte d’appello l’attività svolta dalla donna era riconducibile ad un rapporto di lavoro domestico che, come tale, era qualificabile come rapporto di lavoro subordinato (art. 2094 cod. civ.).
Ritenendo la decisione ingiusta, la coppia condannata aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo i ricorrenti, in particolare, la Corte d’appello avrebbe errato nel qualificare il rapporto intercorso tra le parti, in quanto la lavoratrice non aveva fornito la prova della subordinazione, con la conseguenza che non poteva escludersi che l’attività dalla stessa svolta rappresentasse una semplice “forma di assistenza resa nell’ambito di una convivenza”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione ai ricorrenti, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, in particolare, che la Corte d’appello aveva del tutto correttamente ritenuto provato il vincolo di subordinazione, in considerazione delle caratteristiche oggettive della prestazione resa dalla lavoratrice, che si era occupata della cura dei ricorrenti stessi, senza che la stessa fosse riconducibile ad un rapporto istituito per semplice affetto o benevolenza.
Evidenziava la Cassazione, infatti, che non sussisteva tra le parti alcun “vincolo di solidarietà ed affettività sfociato in una comunanza di vita e di interessi che abbia implicato altresì la partecipazione di uno dei conviventi alla vita ed alle risorse dell’altro”.
In sostanza, poiché la donna aveva eseguito le proprie prestazioni assistenziali, non per semplice affetto nei confronti della coppia di ricorrenti, ma allo scopo di ottenere il pagamento di un corrispettivo, il rapporto instaurato tra le parti doveva certamente considerarsi un rapporto di lavoro subordinato.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dai ricorrenti, confermando integralmente la sentenza impugnata.