Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello dell’Aquila aveva accolto il ricorso proposto dall’INAIL, contro la sentenza di primo grado. In primo grado, riconosciuta la natura "professionale" della malattia che aveva cagionato il decesso di un lavoratore, il Tribunale aveva accolto la domanda proposta dal coniuge del medesimo e condannato l’Istituto all’erogazione delle prestazioni assicurative di legge in favore della stessa.
Secondo la Corte d’appello, infatti, il lavoratore doveva considerarsi deceduto “per un complesso patologico gravissimo (neoplasia polmonare) del tutto autonomo rispetto all’attività lavorativa pregressa (addetto all’edilizia)”.
Avverso tale sentenza, la moglie del lavoratore defunto proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando l’affermazione esposta nella sentenza di secondo grado “sulla modesta pericolosità dell’ambiente lavorativo costituito dal cantiere edile non era idonea a confutare i numerosi studi epidemiologici che riconoscevano invece un ruolo concausale nell’insorgenza della neoplasia polmonare all’esposizione a sostanze tossiche (in particolare amianto) presenti nell’ambiente di lavoro”.
Secondo la ricorrente, inoltre, ai sensi dell’art. 2697 del c.c., era l’INAIL che avrebbe dovuto dimostrare, gravato dell'onere della prova, la diversa causa dell’infermità che aveva condotto alla morte del lavoratore.
La Corte Suprema riteneva, in effetti, di dover aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
In proposito, la Cassazione evidenziava come “benché l’ordinamento richieda ancora all’art. 3 del T.U. 1124/65, anche sul terreno assicurativo INAIL, un vero e proprio stretto nesso di derivazione causale tra la malattia e l’attività lavorativa esercitata dal medesimo lavoratore (“a causa e nell’esercizio delle lavorazioni specificate nella tabella“) – non è men vero che ai fini dell’operatività della tutela assicurativa per la giurisprudenza anche costituzionale (Corte. Cost. 206/74) è comunque sufficiente il rischio ambientale (cfr. Cass. SU 13025/2006; 15865/2003, 6602/2005, 3227/2011)”.
In altri termini, ai fini della tutela assicurativa, è sufficiente che il lavoratore abbia contratto la malattia di cui si discute in virtù di una nocività “comunque presente nell’ambiente di lavoro ovvero in ragione delle lavorazioni eseguite al suo interno, anche se egli non fosse stato specificatamente addetto alle stesse”.
Nel caso di specie, invece, la Corte d’appello, “pur non contestando che il lavoratore fosse stato esposto per il lunghissimo periodo di tempo di 31 anni alle sostanze nocive presenti nell’ambiente di lavoro”, aveva “negato un qualsiasi ruolo causale alle stesse sostanze senza accennare nemmeno ad una giustificazione”, “limitandosi a qualificare come “modesta” la pericolosità dell’ambiente” e raccordando la malattia esclusivamente con l’abitudine del fumo del lavoratore, senza che vi fossero elementi “idonei ad attribuire al tabagismo il carattere di causa esclusiva dello stesso evento dannoso”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione riteneva di dover accogliere il ricorso proposto dalla moglie del lavoratore deceduto, annullando la sentenza di secondo grado e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima procedesse ad un nuovo esame della questione.