Nel caso sottoposto al vaglio degli Ermellini, un dipendente dell’ ASL agiva in giudizio affinché, il Tribunale, condannasse al risarcimento dei danni il suo datore di lavoro, a causa della condotta vessatoria posta nei suoi riguardi. Essa era consistita nella chiusura del reparto dove egli era primario e nella mancata assegnazione di incarico equivalente presso l’ospedale in cui era stato trasferito.
Il Tribunale, tuttavia, dichiarava nullo il ricorso proposto, in quanto privo degli elementi essenziali richiesti dall’art. 414 c.p.c..
Il lavoratore, allora, impugnava la sentenza innanzi alla Corte d’Appello, la quale riformava la decisione solo in relazione all’eccezione di nullità, mentre rigettava la domanda nel merito, in quanto la pretesa del lavoratore era carente degli elementi necessari per l’accoglimento della stessa. Tanto perché, la condotta vessatoria di cui si lamentava il ricorrente, non era da collegarsi ad a un disegno volto a mortificarne la personalità. Inoltre, il lavoratore non aveva, altresì, dedotto elementi in fatto dai quali si potesse trarre la sussistenza dei danni lamentati.
Contro tale decisione, il lavoratore ha proposto ricorso in cassazione.
La Suprema Corte, ha ritenuto di dovere confermare a quanto statuito in appello. Ha precisato, infatti, che il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo volta a ledere il lavoratore. Gli elementi caratterizzanti questo comportamento sono:
- la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti:
- la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente);
- la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.
Nel caso di specie, tuttavia, tali elementi non erano stati provati e pertanto il ricorso non veniva accolto.