Come noto, infatti, nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio, il giudice, ai sensi dell’art. 156 c.c., nel pronunciare la sentenza, può porre a carico di uno dei coniugi l’obbligo di corrispondere all’altro, un assegno mensile a titolo di contributo nel mantenimento del coniuge stesso e/o dei figli minorenni (o maggiorenni ma economicamente non autosufficienti).
Nell’adottare tali provvedimenti, il giudice dovrà tener conto della complessiva situazione economico-reddituale dei coniugi, in base al principio fondamentale secondo cui l’assegno deve consentire al coniuge economicamente più debole di mantenere, dopo la fine del matrimonio, un tenore di vita analogo a quello di cui godeva in costanza di matrimonio.
Ebbene, nel caso esaminato dalla Corte con la pronuncia sopra citata, nell’ambito di un procedimento per divorzio la Corte d’Appello aveva confermato la decisione del Tribunale di porre a carico dell’ex marito un assegno di mantenimento in favore della moglie.
Il marito, ritenendo tale determinazione ingiusta, proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando ai giudici come, nel corso del procedimento, “vi sarebbe stata una modifica delle sue condizioni economiche in senso peggiorativo (e cioè egli stesso avrebbe cessato ogni attività lavorativa)”.
Il ricorrente, in particolare, ricordava come “giurisprudenza consolidata ( tra le altre, Cass. N. 2184 del 2009; 3325 del 2012 ) afferma che tali sopravvenienze, per ragioni di economici processuale potrebbero essere considerate dal giudice di appello nella pronuncia di separazione o divorzio”.
Tuttavia, la Cassazione non ritiene di dover aderire alle argomentazioni svolte dall’ex marito e rigetta il ricorso.
Non ritiene, infatti, di poter in alcun modo sollevare critiche in ordine al percorso argomentativo seguito dalla Corte d’Appello, in sede di secondo grado di giudizio, in quanto, la stessa, “con motivazione adeguata e non illogica, chiarisce che, pur prescindendo/alla circostanza non provata che il marito si sia reso impossidente in vista del futuro divorzio, è certo che i suoi possedimenti, riportati nelle denunce dei redditi e nella relazione catastale prodotta dalla moglie, necessitino di capacità di reddito, anche ai soli fini del loro mantenimento; la Corte di merito presume che da alcuni di essi egli tragga rendite locatizie ( o comunque ne potrebbe trarre) che gli consentano un adeguato sostentamento”.
Inoltre, secondo la Corte, il giudice di secondo grado aveva anche rilevato come “la moglie, dopo la separazione, si è adattata a svolgere lavori precari e poco remunerativi, come bracciante agricola, e che ciò non ha certo eliminato il divario economico tra le parti, desumibile dalla capacità di reddito del marito, fondato sia sulla notevole competenza del suo lavoro di mastro-muratore, che è riuscito, nel corso degli anni, ad investire i propri guadagni in unità abitative e in terreni, sia sulle sue precedenti dichiarazioni dei redditi”.
In sostanza, quindi, la Corte di Cassazione ritiene di dover aderire a quanto rilevato dalla Corte d’Appello, la quale aveva confermato la pronuncia di condanna in capo all’ex marito, dal momento che, nonostante le sue condizioni economiche fossero peggiorate, permaneva comunque un notevole divario tra i due ex coniugi, che ben giustificava la corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore della moglie.
Ciò anche in considerazione del fatto che il marito aveva specifiche competenze professionali, che gli avevano anche consentito di risparmiare delle ingenti somme nel corso degli anni, come del resto attestato dalla documentazione reddituale che risultava agli atti di causa.
In altri termini, ciò sta a significare che il solo fatto che un coniuge perda il lavoro non giustifica di per la revoca dell’obbligo di mantenimento, in quanto il giudice dovrà sempre valutare la situazione economico-patrimoniale complessiva di entrambi i coniugi.