Il caso sottoposto all’attenzione della Cassazione ha riguardato una società, che aveva agito in giudizio al fine di veder accertata la legittimità della sanzione disciplinare di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione che era stata irrogata ad un proprio dipendente.
La domanda era stata rigettata in primo grado e la sentenza era stata confermata anche dalla Corte d’appello, la quale aveva annullato la sanzione stessa.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, il giudice di primo grado aveva, del tutto correttamente, ricollegato l’illegittimità della sanzione irrogata “sulla mancanza di prova dell’affissione del codice disciplinare”.
Precisava la Corte, inoltre, non poteva affermarsi che, nel caso di specie, l’affissione fosse superflua, in quanto “la peculiarità dell’addebito, sostanzialmente consistito nella pretesa del lavoratore di prestare la propria attività in difformità ad un contestato provvedimento di collocazione in ferie d’ufficio, rendeva difficile affermare di essere in presenza di condotta adottata in violazione di basilari e generali regole di comportamento”.
Ritenendo la decisione ingiusta, la società datrice di lavoro aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo la ricorrente, in particolare, la Corte d’appello, nel rigettare la sua domanda, non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, avendo la stessa erroneamente escluso che la condotta addebitata al lavoratore fosse riconducibile alla “violazione dei generali doveri facenti capo al lavoratore”, per la cui sanzionabilità non era richiesta l’affissione del codice disciplinare.
Nemmeno la Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di poter aderire alle considerazioni svolte dalla società datrice di lavoro, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Evidenziava la Cassazione, infatti, che “non è necessario provvedere all’affissione del codice disciplinare” solo in quei casi in cui “il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale”.
Nel caso di specie, invece, secondo la Corte, il giudice d’appello aveva, del tutto adeguatamente e motivatamente escluso che la condotta oggetto di contestazione rientrasse nel novero di quelle per le quali non è richiesta la predetta affissione.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando integralmente la sentenza impugnata