Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d'appello, a differenza del giudice di primo grado, aveva ritenuto non configurabile nei confronti dell'imputato il reato di maltrattamenti (art. 572 codice penale) "consistito nell'avere sottoposto il dipendente a continui comportamenti ostili, umilianti e ridicolizzanti, insultandolo e rimproverandolo e minacciandolo in caso di errori".
Secondo la Corte d'appello, infatti, tale reato presupponeva un rapporto di "para-famigliarità" tra lavoratore e datore di lavoro, che non poteva considerarsi sussistente nel caso in esame, dal momento che il lavoratore in questione "era inserito in una normale realtà aziendale".
Pertanto, secondo il giudice di secondo grado, doveva ritenersi integrato, non il reato di maltrattamenti ma quello di ingiurie continuate (art. 594 codice penale).
Giunti al terzo grado di giudizio, il Procuratore generale ricorrente evidenziava che la Corte d'appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza del reato di cui all'art. 572 codice penale, "per mancanza del requisito dei rapporto di para-familiarità tra l'imprenditore e il dipendente".
Secondo il Procuratore, invece, l'istruttoria aveva "accertato che l'impresa era di piccole dimensioni, e, inoltre, che le relazioni tra l'imprenditore e la persona offesa era abituali, tale da essere stato quest'ultimo designato quale responsabile degli altri dipendenti addetti al magazzino".
Osservava il ricorrente, in proposito, che la Corte di Cassazione era univoca nel comprendere nel rapporto di para-famigliarità, anche le ipotesi in cui, come nel caso di specie, "le relazioni tra il dipendente e il datore di lavoro sono intense e caratterizzate da consuetudini di vita, dalla fiducia riposta dal soggetto piu debole in quello che ha rapporti di supremazia".
Precisava il ricorrente, inoltre, come fosse da ritenere che la condotta del datore di lavoro "era tale da dimostrare l'esistenza di una precisa volontà di maltrattare il dipendente".
La Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva il ricorso infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, come nel corso dell'istruttoria fossero stati "esaminati come testi ex dipendenti e clienti i quali hanno riferito che all'interno dell'azienda si lavorava in un ambiente normale e l'atmosfera era di lavoro con un costante controllo" del datore di lavoro.
Dunque, secondo la Corte, il giudice di secondo grado aveva correttamente ritenuto che le circostanze non fossero tali da "integrare il delitto di maltrattamenti, che richiede l'esistenza di un rapporto para-famigliare".
Precisava la Cassazione, infatti, come in tal senso si sia pronunciata la stessa Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza n. 24642 del 19 marzo 2014, aveva affermato che "le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto piu debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia".
In conclusione, la Corte di Cassazione riteneva che la decisione della Corte d'appello fondata e ben argomentata.