Nel caso esaminato dalla Cassazione, una donna aveva agito in giudizio al fine di ottenere la risoluzione del contratto di locazione di un immobile a uso commerciale, stipulato con la proprietaria dello stesso.
La contraente, in particolare, motivava la propria domanda di risoluzione sulla circostanza che la sua domanda di autorizzazione all’esercizio di attività commerciale (nella specie, un bar), era stata respinta dal Comune, in quanto l’immobile era stato edificato in assenza di concessione edilizia.
Il Tribunale di Marsala, pronunciatosi in primo grado, aveva accolto la domanda del contraente, disponendo la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento della locatrice, condannando quest’ultima anche a pagare all’altra contraente la somma di oltre Euro 5.000,00, a titolo di indennizzo per le migliorie apportate all’immobile.
La sentenza era stata, tuttavia, riformata in sede di appello, in quanto la Corte evidenziava che, pur essendo vero che “la mancanza di abitabilità o di agibilità dei locali a causa della non conformità dell’immobile al progetto approvato rientra fra le cause di risoluzione del contratto di locazione di cui all’art. 1578 cod. civ.”, era altrettanto vero che “il conduttore può chiedere la risoluzione del contratto solo quando l’autorizzazione venga definitivamente negata”.
Nel caso di specie, invece, era emerso che la locatrice aveva proposto domanda di concessione in sanatoria, la quale non risultava essere stata rigettata.
Ritenendo la decisione ingiusta, la conduttrice dell’immobile aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo la ricorrente, infatti, la Corte d’appello, nel rigettare la domanda di risoluzione, non aveva dato corretta applicazione all’art. 1578 c.c., in quanto la stessa, “pur avendo accertato la sussistenza di tutti i presupposti dell’inadempimento della locatrice – cioè il carattere abusivo della costruzione dell’immobile locato, che ne comporta la non abitabilità e l’impossibilità di destinarlo all’esercizio dell’attività commerciale in vista della quale era stato locato – non ne ha tratto le conseguenze di legge”.
Secondo la ricorrente, in particolare, la Corte d’appello aveva fondato la propria decisione su di un “ragionamento illogico”, vale a dire sul fatto che “la concessione edilizia in sanatoria, richiesta dalla locatrice quattro anni dopo la stipulazione del contratto, non era stata ancora negata, trascurando la circostanza che nel frattempo l’immobile si è rivelato inidoneo all’uso”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione alla ricorrente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che la Corte d’appello, dopo aver correttamente evidenziato che “la mancanza delle autorizzazioni o concessioni amministrative che condizionano la regolarità dell’immobile sotto il profilo edilizio, ed in particolare la sua abitabilità e la sua idoneità all’esercizio di attività commerciale, costituisce inadempimento del locatore che giustifica la risoluzione del contratto”, aveva, del tutto illogicamente, disapplicato tale principio, rigettando la domanda di risoluzione “per il fatto che nel 1998 – a distanza di quattro anni dalla conclusione del contratto – la locatrice ha proposto domanda di concessione in sanatoria per regolarizzare l’immobile (confermando così di esservi tenuta), senza peraltro ottenerla”.
Nel caso di specie, dunque, secondo la Cassazione, ricorrevano tutti i presupposti per l’accoglimento della domanda di risoluzione, in quanto il contratto di locazione era stato stipulato “in vista dell’esercizio di attività commerciale” ed aveva ad oggetto “un immobile privo della licenza di abitabilità e rimasto di fatto inutilizzato”, essendovi, pertanto, una “irregolarità amministrativa ignorata dal conduttore alla data della conclusione del contratto”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dalla ricorrente, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, sulla base dei principi sopra enunciati.