- annullare il licenziamento;
- condannare il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro;
- condannare il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria.
La previsione da ultimo citata, tuttavia, è stata di recente colpita da una declaratoria di parziale illegittimità da parte della Consulta. La Corte Costituzionale, infatti, con sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 limitatamente alla parola «manifesta».
La Corte, nello specifico, ha ritenuto il requisito della manifesta insussistenza indeterminato e, come tale, foriero di incertezze applicative, con conseguenti disparità di trattamento. Del resto, la sussistenza o la non sussistenza di un fatto – precisano i Giudici delle Leggi - è una “nozione difficile da graduare, perché evoca un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.
In secondo luogo, la Consulta ha ritenuto che quello della la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento è un criterio che provoca un “aggravio irragionevole e sproporzionato” sull’andamento del processo, in quanto le parti, e con esse il giudice, si devono impegnare “nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza”.
Per tali ragioni, dunque, d’ora in avanti, ai fini della tutela dell'articolo 18, il giudice non sarà più tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia "manifesta".