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Falso profilo social del datore di lavoro per spiare i dipendenti, la Cassazione dice che è legale: ecco tutti i casi

Falso profilo social del datore di lavoro per spiare i dipendenti, la Cassazione dice che è legale: ecco tutti i casi
La Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un dipendente, il cui comportamento negligente era stato scoperto tramite un falso profilo Facebook creato dal datore di lavoro
Il web e i suoi contenuti rappresentano, ormai, uno strumento fondamentale, impiegato nella vita di tutti i giorni e per le finalità più disparate. Tuttavia, durante la navigazione online, bisogna prestare attenzione ai contenuti pubblicati e alla veridicità degli stessi. Inoltre, spesso gli utenti si imbattono in profili fake, ovvero account creati utilizzando identità fittizie. Tali profili presentano nomi, foto e dettagli che non corrispondono a una persona reale o imitano l'identità altrui senza consenso.
Chi crea un account del genere può incorrere in alcuni reati, come ad esempio quelli di frode, diffamazione, cyberbullismo, sostituzione di persona. Tuttavia, come chiarito dalla Cassazione in una precedente sentenza, una deroga rispetto a quanto affermato è prevista nei confronti del datore di lavoro. Quest’ultimo, infatti, non è soggetto ad alcun divieto di creare un falso profilo Facebook, qualora esso serva a svolgere un’attività di monitoraggio dei propri dipendenti e sussista un fondato sospetto della commissione di infrazioni da parte degli stessi.

Ebbene, nel caso analizzato dalla Suprema Corte, il responsabile del personale di una società, già informato su precedenti episodi di assenteismo di un dipendente, decideva di creare un falso profilo Facebook, di sesso femminile, dal quale inviava una richiesta di amicizia a un lavoratore, noto per la sua scarsa osservanza degli orari lavorativi. Il responsabile aveva il sospetto che il lavoratore si fosse allontanato dalla propria postazione per effettuare una telefonata, lasciando così incustodito un macchinario. L’obiettivo del responsabile era, quindi, verificare e dimostrare la negligenza del lavoratore, nonché la commissione di violazioni disciplinari, legate in particolare alla sicurezza sul lavoro. Per questo, decideva di avviare con lui delle conversazioni tramite l’account Facebook, durante l'orario di lavoro.
Il dipendente, attirato dalla falsa identità femminile, iniziava ad avviare una serie di conversazioni con il profilo fake, durante le ore di lavoro e da posizioni compatibili con la sede aziendale, come dimostrato dalla geolocalizzazione dell’account Facebook.

Il responsabile non aveva fatto altro che adottare un controllo di tipo “difensivo”, in quanto finalizzato a proteggere l'azienda da eventuali illeciti. Attraverso tale espediente, venivano quindi confermati i sospetti del datore di lavoro e veniva avviata una procedura di licenziamento per giusta causa, contro cui il lavoratore però presentava ricorso.
La controversia giungeva fino alla Cassazione, che, con la sentenza 10955 del 27 maggio 2015, confermava la sentenza della Corte d’Appello e, a sua volta, si pronunciava a favore dell'azienda. In particolare, gli ermellini stabilivano che la creazione del falso profilo non aveva come scopo un controllo sulla performance lavorativa, ma mirava a prevenire condotte illecite che avrebbero potuto danneggiare l'azienda e mettere a rischio la sicurezza e il funzionamento dei macchinari.
Nel testo della sentenza si legge quanto segue: “La condotta dell’azienda che, per accertare la commissione di un presunto comportamento illecito, crea un falso profilo su un social network, contatta il dipendente sospettato e lo induce ad una conversazione virtuale in orario e in luogo di lavoro, non è sussumibile fra quelle disciplinate dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, e rispetta i diritti di libertà e dignità dei lavoratori nonché i principi di buona fede e correttezza”.

La Cassazione, confermando quanto stabilito dalla Corte d'appello, riteneva quindi che il controllo difensivo non violasse l'art. 4 della legge n. 300/1970, poiché tale misura non era continua, invasiva o lesiva dell'autonomia lavorativa. Inoltre, il licenziamento veniva giudicato proporzionato, considerando precedenti infrazioni simili commesse dal dipendente nel 2003 e 2009 e richiamate nella lettera di contestazione.
La Suprema Corte osservava che l'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori limita l’uso di apparecchiature di controllo a distanza, subordinandone l'installazione a un accordo con le rappresentanze sindacali o a disposizioni specifiche dell'Ispettorato del Lavoro. Tuttavia, il controllo difensivo, mirato a proteggere il patrimonio aziendale e a prevenire comportamenti illeciti, esula da queste restrizioni.

Un’altra ipotesi - che rappresenta una deroga alla previsione di cui all’art. 4 dello Statuto - è quella dei controlli effettuati avvalendosi dell’operato di investigatori privati, al fine di verificare un utilizzo abusivo dei permessi ex Legge 104.
La giurisprudenza, ormai consolidata, ritiene generalmente ammissibili i controlli difensivi “occulti”, purché rispettino le garanzie di libertà e dignità dei lavoratori e siano svolti in buona fede. Nel caso specifico, il controllo mediante un falso profilo femminile era giustificato dalle ripetute violazioni del divieto aziendale sull'uso del telefono durante il lavoro.
La Cassazione ha ribadito che, in casi simili, il fine di tutelare l'azienda può giustificare mezzi che, in circostanze diverse, sarebbero qualificati come ingannevoli. Con la sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015, la Corte ha quindi respinto il ricorso del dipendente e confermato la legittimità del licenziamento disciplinare, riconoscendo altresì la liceità del controllo attuato attraverso il falso profilo social.


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