Brocardi.it - L'avvocato in un click! REDAZIONE

Il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali costituisce una discriminazione diretta ai sensi dell'art. 1 della Direttiva 2000/78?

Lavoro - -
Il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali costituisce una discriminazione diretta ai sensi dell'art. 1 della Direttiva 2000/78?
La Corte di Giustizia UE ha escluso che la regola interna a un'azienda che preveda un simile divieto produca una discriminazione diretta, purché venga applicata in maniera generale e indiscriminata.
La Corte di Giustizia UE con la sentenza del 13 ottobre 2022, causa c-344/2020 ha evidenziato come l'art. 1 della Direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che l'espressione "la religione o le convinzioni personali" ivi contenuta costituisca un solo e unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto quelle filosofiche o spirituali.

Invero, richiamando la propria precedente giurisprudenza ( G4S Secure Solutions 2 nonché Wabe e MH Muller Handel) la Corte osserva come una regola interna a un'impresa che vieti ai lavoratori di manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche non costituisca, ai sensi del diritto dell'Unione, una discriminazione diretta "basata sulla religione o sulle convinzioni personali" a condizione che essa sia applicata in modo generale e indiscriminato.

Purtuttavia, è possibile che si produca una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali quando si dimostri che la regola, apparentemente neutra, comporti un particolare svantaggio per le persone che aderiscano a una determinata religione o ideologia.

La Corte di Giustizia osserva come una simile disparità di trattamento non integrerebbe una discriminazione indiretta qualora fosse giustificata da una finalità legittima e sempre che i mezzi impiegati nel perseguimento della stessa fossero appropriati e necessari. Nondimeno, la Corte rileva come la mera volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità, sebbene sia una finalità legittima, non sia sufficiente a giustificare una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Infatti, il carattere oggettivo di tale giustificazione può ravvisarsi solo in un'esigenza dell'imprenditore, al quale spetterà il relativo onere della prova.

Infine, la Corte rileva che nella valutazione dell'esistenza di una siffatta giustificazione il diritto dell'Unione non osti a che il giudice nazionale riconosca, nel bilanciamento degli interessi contrapposti, una maggiore importanza a quelli della religione o delle convinzioni personali su quelli risultanti dalla libertà d'impresa, purché ciò sia previsto dal diritto interno. In particolare, il margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri non può spingersi fino a consentire a questi ultimi o ai rispettivi giudici di scindere, in più motivi, uno dei casi di discriminazione indicati dall'art. 1 della Direttiva in commento, salvo mettere in discussione il testo, il contesto e le finalità di tale motivo e pregiudicare l'effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro previsto dall'Unione.


Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.