Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Bari aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Trani aveva dichiarato la penale responsabilità di un imputato, per il reato di “uccisione di animali”, di cui all’art. 544 bis cod. pen.
Nel caso di specie, in particolare, era emerso che l’imputato, in occasione di una battuta di caccia in un luogo vietato, aveva ucciso un cinghiale “con modalità crudeli ed insidiose”, abbagliandolo di notte, investendolo con la propria auto e uccidendolo con numerose coltellate.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, i giudici dei precedenti gradi di giudizio non avrebbero adeguatamente motivato la loro decisione, ritenendo a priori e sulla base di preconcetti, che l’imputato fosse colpevole.
Nello specifico, secondo il ricorrente, i giudici di merito non avrebbero tenuto in considerazione il fatto che l’imputato aveva presentato dei segni di morsicatura che erano pacificamente riferibili all’animale poi ucciso.
Di conseguenza, secondo il ricorrente, non poteva essergli addebitata nessuna responsabilità, in quanto l’uccisione del cinghiale era avvenuta “in condizioni di stato di necessità”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Osservava la Cassazione, in proposito, che la Corte d’appello di Bari aveva, del tutto correttamente, escluso che il comportamento dell’imputato potesse dirsi giustificato da uno “stato di necessità”, in quanto tale causa giustificativa presuppone che il soggetto “non abbia, con il proprio comportamento dato volontariamente causa alla situazione di imminente pericolo di danno grave alla persona propria o di altri”.
Nel caso di specie, invece, l’imputato, “volontariamente investendo col proprio veicolo la bestia successivamente da lui uccisa a colpi di coltello” avrebbe causato lui stesso la situazione di pericolo poi indicata come “stato di necessità”.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.