Ritenendo la decisione ingiusta, gli imputati avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Osservavano i ricorrenti, in particolare, che i locali in cui erano avvenuti i fatti oggetto di contestazione erano “incustoditi ed abbandonati”, con la conseguenza che non poteva ritenersi sussistente l’aggravante della “violenza sulle cose”, di cui all’art. 62 c.p.
Secondo i ricorrenti, inoltre, la Corte d’appello avrebbe fondato la propria decisione su delle semplici “congetture” e non avrebbe tenuto in adeguata considerazione gli elementi forniti dalla difesa degli imputati, “che avrebbero introdotto una serie di ragionevoli dubbi di cui si doveva tener conto”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione agli imputati, rigettando i relativi ricorsi.
Evidenziava la Cassazione, infatti, che la Corte d’appello aveva fondato la propria decisione sulla base di “indizi gravi precisi e concordanti” a carico degli imputati, i quali, peraltro, si erano dati alla fuga alla vista degli agenti intervenuti.
Secondo la Cassazione, dunque, la Corte d’appello aveva, del tutto correttamente, ritenuto giuridicamente plausibile la responsabilità degli imputati.
Quanto, poi, alla questione relativa alla sussistenza o meno dell’aggravante della “violenza sulle cose”, la Cassazione osservava che il fatto che si trattasse di immobile apparentemente abbandonato non faceva venir meno il fatto che la porta di ingresso era chiusa con un catenaccio.
In proposito, la Corte osservava che “l'aggravante della violenza sulle cose risulta configurabile tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, manomette l'opera dell'uomo posta a difesa o a tutela del suo patrimonio in modo che per riportarla ad assolvere la sua originaria funzione sia necessaria un'attività di ripristino”.
Nel caso di specie, dunque, poiché l’immobile in questione era chiuso e per entrarvi era stata necessaria “l'effrazione di una porta in ferro”, la Corte d’appello aveva giustamente ritenuto sussistente la suddetta aggravante.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dagli imputati, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando i ricorrenti anche al pagamento delle spese processuali.