Nel caso esaminato dalla Corte, il marito aveva venduto alla sorella la quota del 50% di un’unità immobiliare oggetto di comunione dei beni, mentre al padre aveva venduto un motociclo ed un’autovettura.
La moglie, che vantava dei crediti nei confronti del marito, aveva successivamente avviato il procedimento di separazione personale e, ritenendo gli atti di compravendita compiuti dal marito pregiudizievoli per le sue ragioni creditorie, aveva agito in giudizio chiedendo la revocatoria di tali atti, ai sensi dell’art. 2901 codice civile; attraverso tale azione, il creditore può chiedere al giudice, a determinate condizioni, che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni creditorie, in modo tale da potersi soddisfare anche sui beni usciti dal patrimonio del debitore stesso.
Il Tribunale, in primo grado, accoglieva la domanda della moglie, limitatamente all’atto con cui il marito aveva venduto alla sorella la quota di immobile in comunione dei beni, respingendola, invece, per il resto.
Di conseguenza, il marito proponeva appello, il quale, però, veniva rigettato.
Secondo la Corte d’Appello, infatti, l’azione poteva essere proposta solo se fosse stato accertato che il marito fosse consapevole di arrecare un danno agli interessi della moglie.
Infatti, per i giudici di secondo grado, appariva “presumibile che l’acquirente, sorella del debitore alienante, fosse consapevole, all’epoca del rogito, della crisi matrimoniale in cui versava il fratello e delle pretese economiche della moglie nei confronti di costui”, confermando, pertanto, la sentenza di primo grado.
Ritenendo la decisione ingiusta, il marito proponeva ricorso in Cassazione evidenziando la mancata dimostrazione delle voci di credito vantate dalla moglie.
Secondo il ricorrente, inoltre, gli atti di compravendita compiuti non avrebbero in alcun modo pregiudicato la garanzia patrimoniale dei crediti vantati dalla moglie, la quale deteneva e amministrava tutto il patrimonio immobiliare e mobiliare della famiglia.
Peraltro, secondo il ricorrente, l’atto di compravendita in favore della sorella “non avrebbe affievolito in maniera apprezzabile la consistenza del patrimonio” del marito, che “era tale da non esporre ad alcun rischio le pretese creditorie, anche future” della moglie.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente.
Osservava la Corte, infatti, come sia “principio consolidato che l’azione revocatoria possa essere proposta non solo a tutela di un credito certo, liquido ed esigibile, ma, in coerenza con la sua funzione di conservazione dell’integrità del patrimonio del debitore, quale garanzia generica delle ragioni creditizie, anche a tutela di una legittima aspettativa di credito”.
Inoltre, ai fini della legittimità dell’azione revocatoria, “è sufficiente anche la mera variazione qualitativa del patrimonio del debitore, in tal caso determinandosi il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva”.
Di conseguenza, secondo la Corte, il giudice d’appello aveva correttamente evidenziato “con motivazione sufficiente e congrua, la consistenza plausibile dei crediti (alimentari, da attività lavorativa e per esborsi nei confronti di istituti bancari), anche litigiosi” della moglie, “nonché la obiettiva “valenza lesiva” delle ragioni creditorie della alienazione del cespite immobiliare del marito, dando così contezza della sussistenza dei presupposti oggettivi dell’azione revocatoria ordinaria esperita”.
L’azione revocatoria, dunque, secondo la Cassazione, era stata correttamente accolta, dal momento che il marito-debitore non aveva nemmeno fornito la prova che la vendita avesse rappresentato l’unico modo per procurarsi il denaro necessario per adempiere ai propri debiti scaduti.
Quanto, poi, alla questione relativa alla consapevolezza in capo alla sorella di danneggiare le ragioni creditizie della moglie, secondo la Cassazione, la stessa era a conoscenza “delle turbolenze personali legate alla crisi matrimoniale in cui versava il fratello”, in considerazione dei “fatti noti concernenti le vicende personali dei coniugi separati (“non dissimulate all’esterno”)”, oltre che dello “stretto rapporto di parentela tra debitore alienante e terzo acquirente (sorella del primo)” e della “stima del valore di mercato dell’immobile alienato”, che rendeva evidente la “la sproporzione con il prezzo della vendita, ancorato al solo valore della rendita catastale”.
Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte di Cassazione respingeva il ricorso, confermando la sentenza di secondo grado.