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Attenzione a spiare la casella di posta elettronica del vostro partner!

Famiglia - -
Attenzione a spiare la casella di posta elettronica del vostro partner!
Costituisce reato leggere le e-mail del marito per produrle nel giudizio di separazione.
Attenzione a spiare le e-mail del proprio compagno/a, al fine di utilizzarle nell’ambito del giudizio di separazione o divorzio, in quanto la Corte d’Appello di Lecce ha precisato come tale condotta possa configurare il reato di “violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza”, di cui all’art. 616 codice penale.
Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale aveva condannato la moglie (separata di fatto), per tale reato, in quanto la medesima aveva letto e rivelato il contenuto, nel giudizio di separazione, della corrispondenza informatica destinata al coniuge sul suo indirizzo di posta elettronica.
La donna, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva dunque appello, giuducando il reato insussistente, in quanto la medesima era in possesso della password della casella e-mail e, quindi, doveva ritenersi “implicitamente autorizzata a leggere una corrispondenza che, quindi, non poteva considerarsi chiusa, posto che peraltro le e-mail si visualizzavano automaticamene con l’accensione del computer”.
Peraltro, la donna evidenziava come tali mail “sarebbero pervenute durante la convivenza” col marito e sarebbero state utilizzate per far valere un proprio diritto.
La Corte d’Appello, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla moglie, rigettando la relativa impugnazione.
La Corte, rilevava, infatti, come, dall’istruttoria effettuata in primo grado, “sono emersi in modo certo ed incontroverso” alcuni dati fondamentali.
In particolare, era stato accertato che, nel giudizio di separazione, la moglie, tramite il suo legale, aveva depositato un atto difensivo al quale era stata allegata della corrispondenza intercorsa tra il marito e un’agenzia immobiliare messicana, la quale era stata incaricata dall’uomo di trovare un alloggio, dal momento che il medesimo, per ragioni di lavoro, aveva necessità di trasferirsi momentaneamente in quel Paese.
Il marito, in tale occasione, aveva chiarito che le mail prodotte provenivano dal suo indirizzo privato di posta elettronica e che le medesime erano relative ad un periodo di tempo in cui era già cessata, di fatto, la convivenza con la moglie.
Di contro, la moglie aveva spiegato di essere riuscita ad entrare nella casella di posta elettronica del marito, “sfruttando i precedenti accessi effettuati dallo stesso marito tramite il suo computer, sul quale era stato installato un programma che consentiva di memorizzare le password già digitate”.
Tuttavia, secondo la Corte d’Appello, il reato contestato doveva ritenersi, nel caso di specie, sussistente.
Risultava, infatti, provato e non contestato che la moglie avesse posto in essere la condotta descritta nel capo di imputazione, e cioè che la stessa aveva preso cognizione della posta elettronica pervenuta all’indirizzo del marito, rivelandone, poi, il contenuto in sede di giudizio di separazione.
Tale condotta, secondo i giudici, integra perfettamente il reato di cui all’art. 616 codice penale, dal momento che “non è ravvisabile un’autorizzazione implicita” del marito alla moglie “ad accedere alla posta elettronica dello stesso”, in quanto il possesso da parte della moglie della password, non era stato frutto di una rivelazione spontanea del marito alla moglie, “ma il risultato di un’operazione di memorizzazione eseguita dal computer” della moglie al momento del suo utilizzo da parte del marito ed avvenuta all’insaputa del marito stesso.
Inoltre, la moglie aveva preso cognizione della corrispondenza informatica quando era già cessata la convivenza tra i coniugi.
Non solo: secondo la Corte, non era ravvisabile “alcuna esigenza difensiva” della moglie in relazione alle mail in questione, la cui produzione nel giudizio di separazione risulta “priva di una giusta causa e del tutto gratuita”.
Alla luce di quanto sopra, la Corte d’Appello, dunque, confermava la penale responsabilità della donna, per il reato di cui all’art. 616 codice penale, confermando in tutte le sue parti la sentenza appellata.


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