Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Milano, nel dichiarare il divorzio tra due coniugi, aveva confermato l’affidamento della figlia al Comune di Milano, con collocamento prevalente presso la madre e regolamentando il diritto di visita del padre.
Il Tribunale, inoltre, aveva incaricato i Servizi Sociali della “effettiva e rigorosa presa in carico della minore”, indicando ai medesimi di fissare le modalità di permanenza della figlia presso il padre, di fissare i tempi e modalità di prolungata permanenza della stessa presso il padre e di segnalare alle autorità competenti eventuali comportamenti della madre che ostacolassero la ripresa dei rapporti tra padre e figlia.
Il padre, infine, veniva obbligato a corrispondere un assegno mensile di Euro 600,00, a titolo di contributo nel mantenimento della figlia.
La pronuncia di primo grado veniva confermata in sede di appello, con la conseguenza che il padre decideva di proporre ricorso per Cassazione, deducendo la violazione, da parte del giudice di secondo grado, dell’art. 6, comma 2 e 3, della legge n. 898 del 1970 (legge sul divorzio).
Secondo il ricorrente, infatti, con la sentenza d’appello gli sarebbe stato, di fatto, impedito di frequentare la figlia e tale situazione, “determinata dall'atteggiamento ostile della madre, e non adeguatamente gestita e monitorata dai servizi sociali”, sarebbe “diventata ormai l'espressione della negazione della figura paterna” da parte della figlia, che sarebbe stata “evidentemente indotta a ciò dalla volontà materna, a cui la Corte di appello non ha posto alcun valido rimedio”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, evidenziando come la Corte d’appello avesse, del tutto correttamente, “incentrato la propria valutazione sulla decisione da prendere all'attualità relativamente a una ragazza ormai nel suo quindicesimo anno di età e che aveva espresso una posizione decisamente chiara e argomentata circa la sua indisponibilità attuale alla partecipazione ad un progetto di riavvicinamento con il padre”.
In particolare, poiché la figlia, ormai quindicenne, aveva affermato di “sentirsi ferita dalla poca attenzione dedicatale dal padre”, che, negli anni, si era “limitato a mandarle alcuni sms e a farle sporadiche telefonate”, la Corte d’appello, “valorizzando anche l'affermazione dei servizi sociali secondo cui una riduzione degli interventi in atto non pregiudicherebbe le condizioni di vita attuale della minore, ha confermato il regime di affidamento e la previsione di residenza della minore con la madre, prevedendo l'incarico ai servizi sociali di monitorare attentamente la situazione”.
Secondo la Cassazione, dunque, si trattava di una “decisione incentrata sulla valutazione dell'interesse della minore e sulla valorizzazione della sua capacità di autodeterminazione e improntata a favorire quel recupero della relazione padre - figlia che secondo la valutazione della Corte di appello potrebbe essere ulteriormente pregiudicato dall'imposizione di mutamenti nel regime di affidamento e di percorsi terapeutici e incontri obbligati”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal padre, condannando il medesimo al pagamento delle spese processuali.