Cosa succede se il gestore del servizio idrico ci impone il pagamento di un canone per la depurazione delle acque ma, in realtà, l’acqua che lo stesso ci fornisce non risulta potabile, in quanto il Comune è sprovvisto di un impianto di depurazione?
In questo caso, siamo costretti ugualmente a pagare o possiamo legittimamente opporci?
Proprio di questa questione si è occupata la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25112 del 14 dicembre 2015, la quale ha fornito alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso di specie, un cittadino aveva agito in giudizio al fine di ottenere la restituzione delle somme pagate per il servizio di depurazione delle acque pubbliche, dal momento che l’acqua non risultava potabile.
La domanda veniva accolta sia in primo che in secondo grado, con la conseguenza che la società erogatrice del servizio idrico provvedeva a proporre ricorso per Cassazione.
Giunti al terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione ritiene di dover aderire alle considerazioni svolte dal cittadino, confermando la sentenza resa dal Giudice di Pace e dal Tribunale.
Osserva la Corte, infatti, come un altra precedente pronuncia della Cassazione abbia confermato che “in ossequio alla lettura costituzionale della disciplina relativa alla debenza dei canone di depurazione delle acque, che non vi è luogo al pagamento laddove il Comune sia sfornito di impianto di depurazione centralizzato delle acque (Cass.12 aprile 2011, n, 8318)”.
In proposito, infatti, la Corte Costituzionale è intervenuta “dichiarando costituzionalmente illegittimo l'art. 14, legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), "nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita at servizio di depurazione è dovuta dagli utenti “anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi” (Corte cost., 10 ottobre 2008, n. 335)”.
In particolare, in base al ragionamento svolto dalla Corte costituzionale, confermato anche dal Consiglio di Stato, “la tariffa dei servizio idrico integrato si configura, in tutte le sue componenti, come il corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, il quale, ancorché determinato nei suo ammontare in base alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell'utente, bensì nel contratto di utenza”.
Nello specifico, dunque, “a fronte dei pagamento della tariffa, l'utente riceve un complesso di prestazioni consistenti, sia nella somministrazione della risorsa idrica, sia nella fornitura dei servizi di fognatura e depurazione. E poiché la quota di tariffa riferita ai servizio di depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo contrattuale, il cui ammontare è inserito automaticamente nel contratto (LL n. 36 del 1994, art. 13) è irragionevole l'imposizione all'utente dell'obbligo del pagamento della quota riferita al servizio di depurazione anche in mancanza della controprestazione, non potendosi ritenere, stante l'unitarietà della tariffa, che le sue singole componenti abbiano natura non omogenea, e, conseguentemente, che anche solo una di esse, a differenza delle altre, non abbia natura di corrispettivo contrattuale ma di tributo (Cons. Stato, 30 giugno 2011, n. 3920)”.
Di conseguenza, nel caso in esame dalla Cassazione, il Tribunale aveva del tutto correttamente confermato il diritto del cittadino al rimborso delle somme che lo stesso aveva pagato per un servizio, di fatto, non fornito, dal momento che non era stata fornita la prova “dell'esistenza di un impianto funzionante net periodo in considerazione” e non era stata nemmeno “dimostrata, con riferimento a detto periodo, l'effettiva fruizione del servizio di depurazione”