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Cassa integrazione 2024, se il datore di lavoro ti mette in CIG ingiustamente puoi chiedere i danni: novità Cassazione

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Cassa integrazione 2024, se il datore di lavoro ti mette in CIG ingiustamente puoi chiedere i danni: novità Cassazione
La responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazione di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale. Vediamo di seguito le argomentazioni della Suprema Corte
La sospensione della prestazione di lavoro può dipendere, oltre che da fatti relativi alla persona del lavoratore, anche da circostanze che riguardano l’impresa e la sua gestione.
In questi casi vige il principio di continuità del salario, che si realizza grazie alla disciplina delle integrazioni salariali. Si tratta di strumenti di sostegno che intervengono in presenza di crisi aziendali, ovvero di difficoltà temporanee dell’impresa, per consentire al lavoratore di non trovarsi privo di reddito durante il periodo di sospensione del rapporto di lavoro con l’azienda.
Il nostro ordinamento prevede due tipi di intervento stabilendone i criteri di applicazione:
  • la Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO);
  • la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS).

La Corte di Cassazione, con ordinanza del 16 aprile 2024, n. 10267, affronta il tema dell’uso illegittimo dei predetti strumenti e delle annesse conseguenze.
Nel caso di specie, l’uso improprio della CIG era dovuto al riferimento al criterio “tra lavoratori che svolgono mansioni fungibili”, laddove invece la legge parla di "meccanismi di rotazione tra lavoratori". Di qui la controversia sorta in relazione alla richiesta, avanzata da una lavoratrice, di risarcimento del danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione in CIG.
In primo grado, era stata accertata l'illegittimità del provvedimento aziendale di sospensione dal lavoro a fronte della violazione dei criteri utilizzati per individuare i lavoratori da sospendere e, in conseguenza di tale accertamento, in secondo grado, la Corte d'Appello di Bologna aveva riconosciuto il diritto, in via equitativa, a un risarcimento a titolo di danno alla professionalità pari al 30% della retribuzione mensile netta percepita dalla lavoratrice per tutto il periodo di illegittima sospensione in cassa integrazione guadagni.

A fronte della censura mossa dalla società ricorrente - secondo cui il danno da inattività per CIG sarebbe differente da quello relativo all'inattività che discende, invece, dalla violazione dell'art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili - la Corte di Cassazione ha invece sancito che la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.

"Né si intuisce" - sostiene la Suprema Corte - "perché la fattispecie produttiva di responsabilità e di danno debba essere differente se l'illegittima inattività si produca nel corso dell'esecuzione del rapporto o in seguito ad illegittima sospensione (o anche estinzione) del rapporto; posto che il danno che viene in rilievo è comunque un danno di natura professionale che si correla alla mancata esecuzione della prestazione, anche in base ad una regola presuntiva, che è poi quella che è stata posta dalla Corte d'appello alla base della liquidazione del danno".

Nel dettaglio, a parere della Suprema Corte, la circostanza di non poter esercitare la propria prestazione professionale non lede solo l'immagine professionale, ma danneggia anche professionalmente il lavoratore, in quanto una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del patrimonio professionale e rende di conseguenza più difficoltosa la ricollocazione del lavoratore sul mercato del lavoro.

A supporto di tale orientamento, i giudici richiamato un loro stesso arresto di legittimità, la sentenza n. 10/2002 (riferita a un lavoratore che era stato lasciato in condizioni di inattività per lunghissimo tempo). In tale pronuncia, la Suprema Corte aveva affermato che il comportamento datoriale non solo violava l'articolo 2103 c.c. ma era, al tempo stesso, lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificata dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza.

In tal modo, la Cassazione ha enunciato un concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza, quale è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, ed ha ritenuto che tale lesione produca automaticamente un danno non economico ma comunque rilevante sul piano patrimoniale per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore, anche se determinabili necessariamente solo in via equitativa.

Da ultimo, vale la pena sottolineare come la Suprema Corte abbia colto l'occasione anche per ricordare che, ai fini dell'esistenza e della prova - anche presuntiva - del danno alla professionalità, si può fare leva su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti qualità:
  • la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta,
  • il tipo e la natura della professionalità coinvolta,
  • la durata del demansionamento,
  • la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.


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