(massima n. 1)
L'assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del loro livello contrattuale non determina di per sé un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria, l'art. 2103 c.c., il quale stabilisce il principio della irriducibilità della retribuzione, nonostante l'assegnazione e lo svolgimento di mansioni inferiori e meno pregiate di quelle già attribuite, giacché deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una automatica dequalificazione professionale, connotandosi quest'ultima, per sua natura, per l'abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione — non transeunte — della sua professionalità, nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno. Ne consegue che grava sul lavoratore l'onere di fornire la prova, anche attraverso presunzioni, dell'ulteriore danno risarcibile, mentre resta affidato al giudice del merito — le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità — il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l'ammontare, eventualmente con liquidazione in via equitativa. (In applicazione di tale principio, la Corte Cass. ha cassato la sentenza impugnata che, accertato il demansionamento dei lavoratori, aveva per ciò solo ritenuto sussistente un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dalla diminuzione della retribuzione, liquidandolo in via equitativa).