(massima n. 2)
La condanna generica al risarcimento del danno postula, quale presupposto necessario e sufficiente della pronuncia, l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, restando impregiudicato quello, riservato al giudice della liquidazione, dell'esistenza e dell'entità del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudicato sull'an debeatur. Tale principio trova applicazione non solo nella ipotesi — specificamente prevista dall'art. 278 c.p.c. — in cui, risultando accertata la sussistenza di un diritto, ma essendo controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, si limiti a pronunciare, con sentenza, non definitiva, la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione; ma altresì nel caso in cui l'attore proponga “a origine” domanda limitata alla sola condanna generica, riservando a separato giudizio la richiesta di determinazione della prestazione dovuta. Né la proponibilità di siffatta domanda è subordinata alla condizione che essa si fondi su di un accordo con il convenuto, ravvisabile, peraltro, anche tacitamente nell'assenza di opposizione, costituendo la domanda stessa espressione del principio di autonoma disponibilità delle forme di tutela offerte dall'ordinamento, ed essendo configurabile un interesse giuridicamente rilevante dell'attore, che costituisce indefettibile condizione dell'azione, consistente nel conseguimento di forme di tutela cautelare o speciale. Rispetto a tale domanda, peraltro, è possibile individuare un interesse del convenuto alla negazione dell'esistenza attuale del danno. In tal caso, costui contrappone al proposto accertamento probabilistico della sussistenza del danno l'accertamento negativo sulla base di certezza. Solo un siffatto accertamento è idoneo ad impedire la prosecuzione della pretesa attorea in una seconda fase o in un successivo giudizio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione della Corte territoriale che, in parziale riforma della sentenza del giudice di primo grado, aveva pronunciato la condanna generica di un istituto di credito al risarcimento del danno cagionato ad una società, che aveva intrattenuto con lo stesso un rapporto di apertura di credito in conto corrente, assistito da fideiussione, dalla emissione di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, con conseguente iscrizione di ipoteche giudiziali sui beni dei fideiussori, ottenuto dall'istituto, receduto dal rapporto, senza che venisse rispettato il relativo termine di preavviso per il rientro delle esposizioni debitorie. Nell'occasione, la S.C. ha rilevato che, nel giudizio di appello, la banca si era limitata a chiedere la reiezione del gravame, e la conferma della sentenza di primo grado, e che tale comportamento non poteva ritenersi sufficiente a configurare una opposizione alla domanda attorea — originariamente limitata all'“an” — suscettibile di esigere dal giudice un ampliamento del tema di indagine, ossia un accertamento in termini di certezza in ordine alla sussistenza del danno).