(massima n. 1)
L'art. 130 norme att. fa conseguire, «di fatto», una separazione del procedimento, nel senso che una parte di esso, cioè quella rimessa al giudice, passa nella fase processuale in senso proprio, mentre l'altra resta nella fase procedimentale. Si tratta, però, di una scelta operativa in relazione allo sviluppo progressivo delle indagini rimessa all'autonomia e alla discrezionalità del P.M., non soggetta neppure al dovere di enunciare le ragioni che possono averla giustificata, in sintonia con la particolare funzione assegnata alla fase processuale, preordinata allo svolgimento delle «indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale» (art. 326 c.p.p.). La norma in parola costituisce uno dei cardini del nuovo sistema proiettato alla realizzazione di un generale favor separationis, proteso, quindi, verso l'esigenza di favorire, quando una frazione del procedimento sia ormai pervenuta al punto di consentire l'adozione dell'atto che segna il passaggio dalla fase delle indagini alla fase del processo, quelle scomposizioni di res iudicandae in grado di permettere una pronta decisione. Un'opera che resta affidata all'utilizzazione di moduli che - ovviamente, nel rispetto dei criteri stabiliti dalla legge anche in tema di connessione - appartengono all'esclusivo potere procedimentale del P.M., autorizzato così a verificare quando, in presenza di indagini connesse o collegate, sia necessario - alla stregua dei principi che concernono l'esercizio dell'azione penale - disporre lo stralcio di talune posizioni relative allo stesso imputato ovvero di quelle riguardanti imputati diversi, in modo da non ritardare la presa di contatto con il giudice.